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Gennaio a Roma. Appuntamento con la tradizione (di ieri e di oggi)

Oltre che dei suoi monumenti, dei suoi palazzi e delle sue chiese, una città è fatta anche dei riflessi delle sue storie e della vita che la attraversa. Una vita che, a Roma, è sempre stata scandita da riti, feste, ricorrenze, anniversari, celebrazioni: un fitto calendario di appuntamenti fissi che, con il loro carico di tradizioni, rappresentavano un’occasione di riflessione, tanto religiosa quanto civile, di incontro, condivisione e divertimento, stagione dopo stagione.

Se alcuni, come si dice, non hanno resistito all’oblio del tempo o hanno perso parte di quel senso di perfetta meraviglia che sapevano regalare ai romani e ai tanti visitatori della città, altri godono ancora oggi di ottima salute e si sono persino arricchiti di nuovi elementi. E altri ancora, anche se nati in anni più recenti, sono ormai entrati a pieno titolo tra le “tradizioni” moderne e contemporanee della città.

Così, per vivere appieno Roma e sentirsi dentro la sua storia, mese per mese vi raccontiamo alcuni dei giorni e dei momenti speciali della città, di oggi e di ieri, gli appuntamenti più sentiti o attesi, o anche semplicemente più curiosi.

Capodanno e il tuffo nel Tevere, 1° gennaio

Forse per esorcizzare la paura del futuro e l’apparire di una nuova cifra sul calendario, il Capodanno è da sempre accompagnato da un buon numero di gesti scaramantici e da una certa spensierata, folle allegria. Una spensierata follia che contraddistingue anche un rito tutto capitolino citato persino nelle guide turistiche, quel tuffo nel Tevere che si ripete ogni Capodanno dalla metà degli anni Quaranta. A voler essere precisi, la tradizione risalirebbe agli antichi romani, con un’origine mitologica e un valore lustrale e augurale, di purificazione. A rinnovarla nei tempi moderni, e con spirito meno solenne, fu però l’italo-belga Rick De Sonay. Il primo gennaio 1946, per festeggiare il suo compleanno che cadeva appunto in quel giorno, si lanciò nelle acque gelide e vorticose del fiume in costume e cilindro: un salto a volo d’angelo dalla balaustra marmorea di Ponte Cavour, a pochi passi dall’omonima piazza e da Castel Sant'Angelo, subito dopo lo sparo di mezzogiorno del cannone del Gianicolo. Il tuffo divenne un appuntamento annuale fisso e tutte le volte, riaffiorato incolume dall’acqua, De Sonay rassicurava la folla facendo il segno dell’Ok. “Mister Ok”, come fu presto soprannominato, divenne col tempo così popolare da venir immortalato nel film di Dino Risi “Straziami, ma di baci saziami”, dove salvava un disperato Nino Manfredi suicida nel Tevere. Il suo ultimo tuffo nel Tevere fu negli anni Ottanta ma altri dopo di lui hanno emulato lo spericolato salto. L’epigono più famoso, il nuovo Mister Ok, è però il bagnino di Castel Fusano Maurizio Palmulli, che ha al suo attivo già 34 tuffi. E come il suo predecessore, anche Palmulli è entrato nella storia del cinema con un cammeo nel film “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino.

La Befana, 6 gennaio

Prima che Babbo Natale si imponesse nell’immaginario collettivo, il compito di distribuire dolci e giocattoli, o cenere e carbone nel caso di una condotta meno esemplare, spettava alla Befana, che lo svolgeva con una punta di distaccata ironia. Simbolo “profano” per eccellenza dell’Epifania (che per la Chiesa celebra la visita dei Re Magi a Gesù), da cui tra l’altro deriva il nome attraverso la corruzione in “Pifania” e poi “Befania”, la Befana ha in realtà origini molto lontane, da rintracciare forse nelle feste della Roma antica per il solstizio d’inverno, con la dea Diana che avrebbe sorvolato i campi benedicendo il raccolto. Forse anche per questo la Befana, che nel frattempo aveva assunto le sembianze di un’anziana strega a cavallo di una scopa, ha sempre avuto con Roma un legame speciale: per tutto l’Ottocento, il cuore della festa furono piazza Sant’Eustachio (che dà il nome anche al rione della città) e i vicini vicoli, che ospitavano il mercato dei presepi e dei balocchi, con vino e dolciumi ad alzare la temperatura. Dopo l’Unità d’Italia, la fiera si spostò a piazza Navona, sede fino a quel momento dell’antico mercato delle erbe, trasferito a sua volta a Campo de’ Fiori. Da allora, con pochissime eccezioni, piazza Navona è diventata, con le sue giostre e bancarelle, la tappa obbligata per i romani durante le festività natalizie e la magnifica cornice dei festeggiamenti del giorno della Befana. C’è però anche un altro luogo legato in passato alla Befana romana: la basilica dell’Aracoeli. Un’antica credenza narra che per vincere al Lotto occorresse salire in ginocchio la ripida scalinata d’ingresso, invocando appunto i Re Magi. Ogni 6 gennaio, poi, il veneratissimo Bambinello dell’Aracoeli lasciava la basilica per essere portato in processione in tutta la città e “benedire” simbolicamente Roma.

Moed di piombo o Purim di Roma, 12 gennaio (tra gennaio e febbraio)

È un piccolo ma straordinario miracolo – la storia di uno scampato pericolo – quello che la comunità ebraica di Roma, la più antica d’Europa, ricorda ancora oggi nel secondo giorno del mese di Shevat, a cavallo tra gennaio e febbraio. I fatti risalgono al 1793, mentre i venti della Rivoluzione francese soffiavano sull’Europa. Il 13 gennaio (2 Shevat 5553), vedendo le coccarde tricolori della Repubblica francese, al grido di “Morte ai giacobini!” la folla antirivoluzionaria e papalina assale su via del Corso la carrozza del diplomatico Nicolas-Jean Hugon de Bassville, ferendolo a morte. Il giorno successivo, un gruppo di abitanti dei rioni Trastevere, Monti e Regola si dirige verso il Ghetto, considerato un covo di rivoluzionari e di sostenitori delle idee libertarie dei francesi. Sarà una giornata di tumulti, saccheggi e violenza, con tentativi ripetuti di appiccare il fuoco alle porte del Ghetto, all’epoca abitato da migliaia di persone, e al vicino Ponte Fabricio, conosciuto come Ponte dei Quattro Capi o Pons Judaeorum. Le milizie pontificie intervengono per sedare la sollevazione antiebraica, ma a disperdere definitivamente i facinorosi è un eccezionale, quanto inatteso, evento meteorologico: miracolosamente, il cielo sereno diventa improvvisamente plumbeo e la pioggia battente, i tuoni e i lampi spengono la furia di una folla ormai stanca e bagnata. Un evento straordinario in cui era possibile vedere l’azione di Dio e che gli ebrei romani iniziarono a commemorare istituendo la celebrazione del Moed (festa solenne) di piombo (dal colore del cielo), noto anche come Purim di Roma: come in altre occasioni liete, in tale giornata non si recita la supplica dolorosa del Tachannun.

Carmentalia, 11 e 15 gennaio

Maga e profetessa, protettrice delle nascite e delle levatrici, Carmenta è una dea misteriosa e antichissima: a lei era attribuita anche l’invenzione dell’alfabeto latino, introdotto in Italia da suo figlio Evandro che, dopo essere approdato in Italia fuggendo da Troia, avrebbe fondato su suggerimento della madre una nuova città sul colle che sarà poi chiamato Palatino. Che fosse una dea importante per i Romani lo testimonia il fatto che avesse un sacerdote dedicato al suo culto (il Flamen Carmentalis) e un tempio alle pendici del Campidoglio dal lato che guarda il Tevere, presso una delle porte della città, la porta Carmentalis, appunto. Frequentatissime dalle donne, le feste in suo onore duravano dal mattino al tramonto, con un rito che prevedeva sacrifici non cruenti e libagioni di latte perché la dea delle nascite non tollerava l’uccisione degli animali. Per lo stesso motivo, non si poteva entrare nel tempio indossando abiti e ornamenti di pelle. I Carmentalia si svolgevano inizialmente solamente l’11 gennaio: la seconda data sarebbe stata introdotta per volere delle matrone romane, devote alla dea, in seguito a un fatto storico. Il senato aveva infatti proibito alle donne di usare carri coperti aggiogati: le matrone si coalizzarono rifiutandosi di adempiere ai propri “doveri coniugali” finché il senato non tornò sulle sue decisioni. Ma perché la festa che celebrava il mistero della nascita era proprio a gennaio? Andando indietro di nove mesi, al momento cioè del concepimento, arriviamo ad aprile, il mese dedicato alla dea dell’amore Venere, particolarmente adatto quindi ai matrimoni, mentre maggio e una parte di giugno erano considerati sfortunati per sposarsi.

Sant’Antonio abate e la benedizione degli animali, 17 gennaio

Il docile maiale abitualmente raffigurato ai piedi dell’eremita Antonio, il primo abate del monachesimo cristiano, simbolizzerebbe la sconfitta delle tentazioni a cui il demonio sottoponeva il santo nei lunghi anni trascorsi nel deserto tra il III e il IV secolo. Suini in carne e ossa erano invece quelli che alcuni secoli più tardi giravano indisturbati nei paesi e nelle campagne dove sorgevano le comunità dei monaci antoniani, che li allevavano e ne utilizzavano il grasso per curare il famigerato Fuoco di Sant’Antonio. Dai maiali a tutti gli animali della quotidianità contadina il passo fu breve: il santo venne così eletto loro protettore e in occasione della sua festa divenne consuetudine impartire agli animali domestici una speciale benedizione. A Roma, la cerimonia si svolgeva fin dal 1437 sul sagrato della chiesa dell’Esquilino intitolata al santo, affollato fin dalle prime luci dell’alba da porci, somari, pecore, cavalli “pieni de fiocchi bianchi e rossi e gialli”, come scriverà in uno dei suoi sonetti Gioacchino Belli. A incantare romani e illustri stranieri di passaggio, tra cui Goethe, erano però soprattutto le magnifiche carrozze dei nobili o, negli ultimi anni del governo pontificio, la lunga fila di cavalli del Servizio Postale e le caratteristiche divise dei loro postiglioni – cappelli in feltro nero bordati d’oro, calzoni di pelle gialla, giubbetti verdi con risvolti rossi e alti stivali. La benedizione presupponeva naturalmente un’offerta alla chiesa, spesso cospicua: un guadagno che faceva gola anche ad altre parrocchie, tanto che nel 1831 si minacciò una “sospensione a divinis” per chi avesse compiuto il rito al di fuori della chiesa di Sant’Antonio. Agli inizi del Novecento, per problemi di traffico, la cerimonia venne tuttavia dirottata sulla scalinata della vicina chiesa di Sant’Eusebio, a pochi passi da piazza Vittorio, dove si svolge tuttora seppure in forma ridotta.

Sant’Agnese e gli agnelli, 21 gennaio

Trafitta con un colpo di spada alla gola, nel modo in cui si uccidevano gli agnelli, il 21 gennaio di un anno imprecisato all’inizio del IV secolo. Ed è proprio un agnello, simbolo di purezza e sacrificio, ad accompagnare nell’iconografia tradizionale la giovanissima martire romana Agnese, uccisa appena dodicenne, forse durante le persecuzioni di Diocleziano, nell’antico Stadio di Domiziano. Il suo corpo sarà sepolto nelle catacombe sulla via Nomentana, dove neanche un secolo dopo sarà costruita la basilica a lei intitolata per volere di Costanza, figlia dell'imperatore Costantino. E in quella basilica, ricostruita in forme grandiose da papa Onorio I nel VII secolo, il 21 gennaio di ogni anno, in occasione della memoria liturgica di Sant’Agnese, si rinnova un antico rito attestato fin dalla metà del Quattrocento: la benedizione degli agnelli. La storia della Chiesa a Roma ci racconta che due pecorelle o agnellini erano la tassa che la basilica doveva al collegio di canonici di San Giovanni in Laterano, e ancora oggi la solenne messa che precede la particolare benedizione è officiata dall’abate dei canonici regolari lateranensi. Alla cerimonia partecipano anche i frati dell’Abbazia delle Tre Fontane, che dal 1909 si sono fatti carico di continuare la secolare tradizione. Gli agnelli sono poi affidati alle cure delle suore di Santa Cecilia in Trastevere: con la loro lana saranno confezionati i pallii, le bianche stole riservate alle occasioni liturgiche più solenni che il papa consegna ai nuovi arcivescovi metropoliti nella festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, il 29 giugno.

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