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L’antico Carnevale romano

Ippolito Caffi, Festa dei “Moccoletti” al Corso, 1845-1847, Museo di Roma in Trastevere

Licenza di trasgredire

Un periodo di allegra follia collettiva in cui le rigide regole quotidiane vengono meno e tutto è concesso – gioco, scherzo e finzione – prima che il Mercoledì delle Ceneri dia avvio ai digiuni quaresimali e alla purificante penitenza che precede la Pasqua. Il Carnevale è, nella sua essenza, una festa legata al mondo cattolico e cristiano. Eppure, secondo molti, avrebbe un diretto antecedente negli antichi Saturnali, celebrati a Roma fino in epoca tardo-imperiale e conditi da banchetti, sacrifici, balli e travestimenti con maschere: una manciata di giorni in cui il mondo si capovolgeva, le differenze sociali erano annullate e gli schiavi potevano considerarsi temporaneamente uomini liberi.

Palii, giostre e carne a volontà

Dimenticate per un attimo i fasti di Venezia, Viareggio o Ivrea: c’è stato un tempo in cui Roma comandava anche sul versante del Carnevale – un tempo lungo, che inizia già nel Medioevo. Le fonti raccontano che nel XII secolo, durante il cosiddetto “ludus carnevalarii”, il papa arrivava a cavallo fino a Testaccio, accompagnato dal prefetto e dai cavalieri della città, per presenziare alle cerimonie propiziatorie, mentre le famiglie nobili di Roma e dei paesi vicini si cimentavano in duelli, palii, giostre, tauromachie e altre battaglie con animali. Tutta la città scendeva in strada, non solo per assistere alla girandola di spettacoli ed esibizioni ma anche per fare gratuitamente scorta di carne. Basti pensare che tra gli appuntamenti più attesi dal popolo c’era per esempio la “ruzzica de li porci”: dalle alture del sacro Monte dei Cocci venivano lanciati alcuni carretti che trasportavano maiali, mentre a valle la gente si contendeva gli animali, vivi o morti che fossero. Tornei di cavalieri si svolgevano infine anche a piazza Navona, allora platea in Agone.

La via del Carnevale

Perché Roma diventi la capitale mondiale del Carnevale bisogna aspettare però fino alla metà del Quattrocento, quando al soglio pontificio salì, con il nome di Paolo II, il cardinale veneziano Pietro Barbo. Uomo energico e fattivo, ma anche amante dell’ostentazione, il cardinale si era fatto costruire il grande palazzo che orna piazza Venezia e aveva poi spostato lì la sua residenza. Il luogo centrale della città, e del Carnevale, divenne così da quel momento la vicina via Lata, il tratto urbano dell’antica via Flaminia: qui il 9 febbraio del 1466 fu inaugurato un Carnevale dai fastosi contorni rinascimentali, con cortei allegorici ispirati alla tradizione romana e alla mitologia classica, il tutto per il faraonico costo di 400 fiorini d’oro. Ma il lungo rettifilo che da Porta del Popolo conduce a piazza Venezia sembrava perfetto anche per un altro tipo di eventi: e fu proprio da queste singolari competizioni che la via Lata mutuò il nome moderno di via del Corso. Con una apposita Bolla, il papa stabilì infatti che in ciascuno degli otto giorni non festivi del periodo carnevalesco avesse luogo una corsa. A gareggiare erano cavalli, asini e bufali, ma anche giovani, vecchi, bambini, ebrei: uno spettacolo irridente, bieco e grottesco, selvaggio come il Carnevale delle origini, che fu in parte interrotto nel 1667 da papa Clemente IX.

La corsa dei berberi

La corsa regina, che durerà invariata con poche eccezioni fino al 1882, fu però sempre quella dei cavalli berberi, veloci cavalli di origine africana, selezionati e addestrati appositamente. I cavalli “scossi”, cioè senza fantino, venivano raggruppati a piazza del Popolo e qui avveniva la partenza o “mossa”. Aizzati e infastiditi da spilli inseriti in palle di pece, i cavalli venivano infatti lanciati tra le urla della folla in una corsa furibonda e scomposta lungo il rettifilo (“carriera”) fino a piazza Venezia, dove un drappo segnava la fine del percorso. Qui i cavalli venivano fermati con grandi difficoltà dai barbareschi, i garzoni di stalla (“ripresa”). Tra i proprietari dei cavalli figuravano naturalmente i nomi dell’aristocrazia romana più in vista (come gli Altemps, i Gabrielli, i Rospigliosi) ma non mancavano semplici appassionati o piccoli commercianti: il vincitore era premiato con un drappo di stoffa preziosa, forzatamente finanziato dalla comunità ebraica. L’evento era così atteso che i posti lungo il percorso erano contesi con largo anticipo. I più ricchi e potenti assistevano allo spettacolo dalle tribune costruite sulla piazza o dagli affacci e dai balconi dei palazzi, adornati con drappi e broccati e spesso affittati a caro prezzo; ai meno fortunati non rimanevano che le affollate pendici del Pincio. Inutile dire che la volata furiosa dei cavalli, unita all’eccitazione della folla in cerca di emozioni forti, non mancava di provocare incidenti, persino mortali.

“Mor’ammazzato chi nun porta er moccolo”

Proprio quando il Carnevale stava per concludersi, al tramonto del martedì grasso, un ultimo exploit segnava la fine dei festeggiamenti: un fiume di luci e di persone che inondava il Corso al grido di  “Mor’ammazzato chi nun porta er moccolo!”. Era la Festa dei moccoletti: per partecipare, occorreva uscire di casa in maschera e avere con se una candela (una fiaccola, un lumino o anche una lanterna), chiamata appunto il “moccoletto”, non importa se sottile come la “coda di un sorcio” o grande come “un cero pasquale”. In una frenesia quasi selvaggia, ognuno cercava di spegnere la luce del vicino mantenendo accesa la propria. Chi si ritrovava con il moccoletto spento doveva togliersi la maschera e diventava bersaglio di ingiurie e canzonature, che fosse di nobili origini o popolano. La festa, nata sul finire del Settecento, rappresentava una sorta di funerale simbolico del Carnevale e aveva una forte rilevanza rituale e simbolica. Ma tra la folla, protetta dalle maschere, accadeva di tutto: scherzi impietosi, furti, accoltellamenti, tradimenti coniugali.  

Maschere in libertà

Al clima di libertà e stramberia del Carnevale contribuivano in gran parte proprio le maschere, sotto le quali scomparivano d’incanto identità personale, sesso e status sociale. Tra le maschere tradizionali figuravano Rugantino, il bullo di Trastevere riconoscibile dai calzoni logori e dall’immancabile fazzoletto al collo, Meo Patacca, il nobile credulone Cassandrino, don Pasquale de’ Bisognosi, il dottor Gambalunga, il generale Mannaggia la Rocca che, a capo di un esercito di straccioni, si vantava di imprese eroiche mai compiute, la zingara e la Pulcinella romana, di evidente ispirazione napoletana. Nessuno rinunciava a mascherarsi: chi non poteva permettersi un costume vero e proprio ricorreva alla fantasia ma al fascino del travestimento cedettero anche personaggi importanti, celebri artisti, letterati e musicisti. Nel 1821 passò alle cronache il travestimento da finti ciechi suonatori ambulanti del futuro ministro d’Italia Massimo d’Azeglio, di Gioacchino Rossini e Nicolò Paganini: su musica composta da Rossini, d’Azeglio cantava una filastrocca e gli altri lo accompagnavano con la chitarra vestiti da donna. E nel Carnevale del 1827 Giuseppe Gioacchino Belli percorse su una carrozza il Corso, reclamizzando a gran voce il suo “elixire nuperrimo” in grado di guarire da un’infinità di malanni.

Quattro secoli di sfarzose follie  

Tra cortei, sfilate, balli, lanci di “confetti” (pallottoline di gesso colorate) e di “sbruffi” (gli attuali coriandoli), scherzi, feste, spettacoli e sontuosi banchetti pubblici, il Carnevale romano fu per oltre quattro secoli un evento colossale che condizionava la vita, i divertimenti, la cultura e l’arte della città. Attirò e coinvolse pittori, poeti, scrittori (Sangallo, Bramante, Raffaello, Michelangelo, Tasso, Goldoni e molti altri) ma anche celebri viaggiatori stranieri in visita nella città. Il clima di euforia collettiva che si respirava durante questo evento, la sua atmosfera e il suo colore non mancarono di colpire, tra gli altri, Stendhal, Dumas, Dickens e Andersen. Goethe, che partecipò al Carnevale del 1788, lo descrisse come “una festa che il popolo dà a sé stesso” nel quale ognuno può essere “pazzo e stravagante quanto gli pare e piace” e dove “salvo le bastonate, e le coltellate, tutto è permesso”. A rappresentarne l’elemento fondamentale e insostituibile era in effetti proprio il popolo romano nella sua vitalità sanguigna, nella sua inventiva e nel suo sguardo ironico e disincantato. Il tramonto del Carnevale iniziò solo con l’avvento dei Savoia a Roma nel 1870: per motivi di sicurezza furono progressivamente vietati molti dei consueti festeggiamenti, considerati responsabili di drammatici incidenti (la corsa dei berberi, innanzitutto). Il cambio nel Palazzo era in fin dei conti troppo recente per consentire, anche solo per scherzo, di rovesciare il nuovo ordine.

Immagine di copertina: Sovrintendenza Capitolina - Ippolito Caffi, Festa dei “Moccoletti” al Corso, 1845-1847, Museo di Roma in Trastevere

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