A cosa serve la letteratura? A insegnarci qualcosa e a migliorarci? A distrarci? A illuminare la realtà o a tradirla? Leggendo Lolita la risposta migliore che ho trovato, per quanto temporanea e sempre parziale, è: sondare i nostri abissi.
Solo la grande letteratura ne è capace: attraversare il male che si annida nell’animo umano senza timore né pregiudizi, ma con ferma e lucida curiosità. Di assassini sono pieni i classici, come di farabutti, e non è un caso. In Lolita il farabutto è un’eccellenza della categoria: un maniaco sessuale che irretisce una ragazzina appena adolescente e, a forza di “amarla” – come sostiene lui – la distrugge. Sarebbe facile ritrarci inorriditi se la sua storia si esaurisse in un breve articolo di giornale scritto in terza persona, ma la letteratura non ci vuole innocenti né in salvo. Quindi Humbert Humbert, lo spregevole intellettuale, l’acculturato orco, si racconta in prima persona attraverso la penna da fuoriclasse di Nabokov, e ci chiede di scendere senza protezioni nel suo abisso. Ci trascina nelle sue colpe. Ci costringe a ridere per il suo humor fantastico, a impallidire per i suoi crimini, e non da una distanza di sicurezza, ma con lo stesso coinvolgimento che avrebbe un parente.
Questo è il prodigio di Nabokov: spalancarci a chiare lettere l’indicibile. E, una volta riemersi con nuove parole, ritrovarci con una nuova consapevolezza della complessità umana.
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