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Le Madonnelle di Roma

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Le Madonnelle di Roma
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Il fascino e le storie delle tante edicole sacre dedicate alla Vergine Maria

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Un’edicola sacra posta a un angolo della strada, sui muri o sui cantonali dei palazzi antichi, generalmente con l’immagine di Maria, a volte in forme così semplici da passare troppo spesso inosservate a chi cammina per le strade di Roma. I romani le chiamano affettuosamente “Madonnelle” e sono l’espressione di una profonda religiosità popolare, di strada, che rispecchia l’intensità del culto mariano in città. Il loro uso risale però all’antica Roma, quando ai Lares Compitales, divinità forse di origine etrusca, veniva affidata la protezione dei crocicchi, cioè di tutte le intersezioni tra due o più strade.

Realizzate a mosaico, dipinte ad affresco o a olio, scolpite su marmo o su terracotta, se ne contano oggi circa 500 ma un tempo erano migliaia, circondate da ex voto lasciati dai fedeli: fino ai primi del Novecento erano gli stessi abitanti dei rioni cittadini a occuparsi della loro manutenzione e a lasciare sempre accese candele e lampade, che avevano anche la funzione di rischiarare il cammino dei viandanti, perché senza di loro molte delle vie e vicoli dei rioni sarebbero rimasti completamente al buio.

La più antica è la cosiddetta “Imago Pontis”, o “Immagine di Ponte”, talmente nota da identificare il tratto di strada su via dei Coronari in cui sorge. Risale al 1523: il committente Alberto Serra da Monferrato affidò la parte architettonica ad Antonio da Sangallo il Giovane e quella pittorica a Perin del Vaga, che dipinse un’Incoronazione della Vergine di livello tanto alto da essere citata da Vasari nelle sue Vite. La maggior parte delle edicole sacre superstiti è però di un periodo compreso fra il Seicento e l’Ottocento, con forme barocche o neoclassiche, e in tanti casi accompagnate da scenografici baldacchini, frange, fiocchi, volute, colonne e putti. Anche se spesso danneggiate dal trascorrere dei secoli, ognuna di loro è una piccola opera d’arte, frutto di maestranze quasi sempre anonime, e ognuna ha una storia da raccontare, tra fatti miracolosi, sacrilegi e grazie concesse. A volte hanno avuto un’importanza così alta da essere spostate all’interno di chiese e cappelle, come la Madonna di Strada Cupa, dipinta su un muro ai piedi del Gianicolo e trasferita poi nella basilica di Santa Maria in Trastevere in virtù dei molti miracoli che le venivano attribuiti.  

Il prodigio più famoso legato alle Madonnelle si verificò però nel 1796, alla vigilia dell’invasione napoleonica: il 9 luglio, e per tutto il mese di quell’anno, decine di immagini in diversi punti di Roma cominciarono a muovere gli occhi, a partire dalla Madonna dell’Archetto nel Rione Trevi, già venerata da prima per i suoi miracoli e poi trasferita in una minuscola cappella alla metà dell’Ottocento. Tanta fu la risonanza del fatto che il papa nominò addirittura una commissione apposita per studiare l’evento: delle 26 Madonnelle esaminate, cinque furono dichiarate miracolose. Oltre alla Madonna dell’Archetto, le altre, ancora conservate, sono la Madonna della Divina Provvidenza in via delle Botteghe Oscure, la Madonna della Pietà in vicolo delle Bollette, la Madonna del Rosario in via dell’Arco della Ciambella (conservata in copia) e la Madonna Addolorata, trasferita a piazza del Gesù alla fine dell’Ottocento. 
 

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Sette trucchi a regola d’arte: i magnifici inganni

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Sette trucchi a regola d’arte: i magnifici inganni
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Effetti scenografici, magie e giochi di prospettiva in pittura e architettura

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La meraviglia dell’arte o l’arte della meraviglia? Tra trompe-l’œil che fanno magicamente apparire su una superficie dipinta oggetti reali e tridimensionali, immagini che acquistano nuove forme se viste da un particolare punto di osservazione, finte architetture e prospettive illusorie, sono tanti gli esempi di come si possa giocare con lo spazio, amplificandone le dimensioni o modificandone la percezione, e creare composizioni in grado di incantarci ed emozionarci. 

“L’ingegno e il disegno sono l’arte magica attraverso cui si arriva a ingannare la vista in modo da stupire”: così scriveva Gian Lorenzo Bernini, uno dei grandi maestri dell’arte barocca che proprio della “finzione”, della spettacolarizzazione e dell’illusionismo fece la sua bandiera. Noi vi presentiamo sette straordinarie illusioni ottiche di Roma, per farvi scoprire quanto possa essere bello talvolta essere ingannati.

#1 Palazzo Barberini, Trionfo della Divina Provvidenza

Un’opera imponente in un luogo d’eccezione: nel 1639 Pietro da Cortona affresca la volta del salone principale di Palazzo Barberini con un capolavoro di illusione ottica. Il Trionfo della Divina Provvidenza celebra il potere della famiglia Barberini – le cui api dello stemma compaiono al centro del soffitto – dando vita a una miriade di personaggi inseriti in uno spazio dilatato all’infinito, che supera i limiti imposti dall’architettura. Con la sua vorticosa vitalità, il suo ritmo frenetico, il suo scenografico illusionismo, l’opera trasmette una sensazione di vertigine: la pittura sembra straripare dalle cornici in finto marmo che dividono la volta in cinque parti e fa dell’affresco il manifesto del nuovo stile barocco.

#2 Galleria Spada, Colonnata (o Prospettiva)

Realizzata fra il 1652 e il 1653 da Francesco Borromini per il Cardinal Bernardino Spada, appassionato di giochi prospettici e illusioni, è un’opera incredibile che gioca con la vista degli spettatori, ma anche un raffinato monito contro l’illusorietà della vita terrena. Con una serie di accorgimenti prospettici – per esempio il soffitto in discesa, il pavimento lievemente in salita, le pareti convergenti e le colonne laterali che via via si rimpiccioliscono – la colonnata sembra infatti lunga più di 30 metri quando in realtà ne misura poco meno di nove. Ad aumentare l’illusione contribuisce la statuetta posta sul muro di fondo e che diventa il punto di fuga dell’intera architettura: ci sembrerà a grandezza naturale anche se è alta meno di un metro.

#3 Piazza San Pietro, Colonnato

Undici anni di lavoro (1656-1667), più di 40mila metri cubi di travertino trasportati da Tivoli via terra o tirati da cavalli lungo le sponde del fiume: con i suoi portici colonnati, la piazza più famosa al mondo simbolizza l’abbraccio universale della Chiesa, ai fedeli ma anche agli “eretici […] e gl’Infedeli per illuminarli alla vera fede”. Nel progettare il colonnato, Gian Lorenzo Bernini gioca con le illusioni ottiche, ottenendo un risultato scenografico e spettacolare. Chi attraversa la piazza vede le colonne riunirsi e distanziarsi, con una sensazione di movimento e di alternanza tra pieni e vuoti. Guardando il colonnato dal centro della piazza, nel punto indicato da uno dei due dischi di marmo sul selciato che segnano i fuochi dell’ellisse, ci sembrerà invece composto da una sola fila di colonne: le colonne più esterne spariscono dietro quelle della fila interna.

#4 Convento di Trinità dei Monti, refettorio e anamorfosi

Frate, architetto e teorico della prospettiva, Andrea Pozzo affresca nel 1694 il refettorio con le “Nozze di Cana”, con un palazzo dalle cento colonne in trompe l’oeil e una messa in scena teatrale e coinvolgente. I corridoi del convento ospitano invece le “anamorfosi” di Emmanuel Maignan (1601-1676) e di Jean-François Niceron (1613-1646), pittori-scienziati dell’ordine dei Padri Minimi. L’anamorfosi non è altro che un’immagine fortemente distorta, riconoscibile solo da una precisa angolazione. Così, il paesaggio marino dipinto da Maignan e lungo circa sei metri si trasforma, se osservato di scorcio, nell’immensa figura di San Francesco di Paola (il fondatore del convento). Nell’anamorfosi di Niceron, lunga circa venti metri, San Giovanni Evangelista si dissolve a sua volta nel panorama dell’isola greca di Patmos, dove l’apostolo trascorse parte della sua vita. Un cartiglio intrecciato ci ricorda che “citra dolum fallimur”, siamo ingannati ma senza malizia. 

#5 Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola, volta e finta cupola

La chiesa ospita due spettacolari illusioni ottiche firmate, anche in questo caso, da Andrea Pozzo. Nel grande affresco della volta con la Gloria di Sant’Ignazio, un gioco di prospettiva trasmette la sensazione di uno spazio infinito e offre ai nostri occhi l’illusione di una seconda chiesa tridimensionale che poggia direttamente su quella reale. E non è finita qui: spostandosi verso l’altare maggiore e fermandosi su un punto preciso del pavimento, una cupola sembrerà svettare imponente. Il soffitto è però in realtà piatto, e la cupola con l’alto tamburo sorretto da colonne è dipinta su una tela di 13 metri mediante la tecnica del trompe-l’œil, si dice per evitare che la chiesa rimanesse incompleta a causa di mancanza di fondi. La pittura originaria, compiuta nel 1685, fu distrutta da un incendio ma fu riprodotta fedelmente nel 1823.

#6 Chiesa di Santa Maria Maddalena in Campo Marzio, Sacrestia

In una piccola chiesa riedificata tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento da vari architetti, tra cui Carlo Fontana e Giuseppe Sardi, una profusione di dipinti, volute e dorature fanno della Sacrestia un esempio unico del “barocchetto romano”, uno stile che segna il passaggio dal barocco al rococò. Come in una grande scenografia teatrale, ogni elemento contribuisce a dare un’illusione di profondità: usando la prospettiva centrale, l’autore costruisce una finta architettura con una volta centrale e due finestre ad arco sui lati, verso cui convergono tutte le linee in un punto di fuga posto dietro un Crocefisso ligneo. Solo due colonne in rilievo emergono dal fondo dipinto rafforzando l’illusione di profondità. Nella parete destra da notare la sequenza alternata di armadi in legno dipinto a finto marmo e finestre trompe-l’œil.

#7 Terme di Diocleziano, Fercoldo

Tra le tante meraviglie delle Terme di Diocleziano, un piccolo capolavoro meno noto è il meraviglioso trompe-l’œil ospitato nel cortile del chiostro di Michelangelo e realizzato nel 1855 da Filippo Balbi, un artista di origine napoletana. Da una finta porta vediamo sbucare un monaco certosino: è Fercoldo, un noto avvocato e giudice francese del Duecento che scelse la vita monastica dopo la morte della moglie. Dipinto a grandezza naturale, ci scruta con sguardo penetrante puntando il dito sul ritratto del figlio, ovvero papa Clemente IV. Attorno a lui, oggetti di assoluta veridicità e utilità quotidiana, un teschio e un crocifisso, una clessidra, un rosario, una candela fumante, pennini e calamaio, tanti libri e un paio di occhiali “pince-nez”. A completare il tutto, un gattino accovacciato che con il muso sollevato contempla il monaco in un ulteriore gioco prospettico di sguardi. 

Gallery 
Trionfo della Divina Provvidenza, Palazzo Barberini
Galleria Spada, Colonnata
San Pietro, Colonnato. Foto David Mark, Pixabay.jpg
Convento di Trinità dei Monti, anamorfosi
Convento di Trinità dei Monti, anamorfosi
Convento di Trinità dei Monti, anamorfosi
Chiesa di Sant'Ignazio di Loyola, volta
Chiesa di Sant'Ignazio di Loyola, cupola
Chiesa di Santa Maria Maddalena, Sacrestia
Terme di Diocleziano, Fercoldo
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Trionfo della Divina Provvidenza, Palazzo Barberini
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Saltimbocca alla romana

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Saltimbocca alla romana
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«Bracioline di vitella di latte, condite leggermente con sale e pepe, sopra ognuna delle quali si pone mezza foglia di salvia (una intera sarebbe di troppo) e sulla salvia una fettina di prosciutto grasso e magro».
È così che, a fine ‘800, Pellegrino Artusi descrive i saltimbocca alla romana, dopo averli assaggiati in una trattoria di Via di Campo Marzio. Il celebre scrittore e gastronomo ne rimase talmente deliziato da farne la ricetta 222 nel proprio trattato “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” del 1891.

L’origine di questo secondo piatto è controversa; si dice, infatti, che sia d’importazione bresciana. Nonostante la provenienza, i saltimbocca rappresentano una delle ricette simbolo della tradizione gastronomica romana. 

Semplici, veloci, saporiti, così buoni che “saltano in bocca” da soli e uno tira l’altro!  Servono davvero pochi ingredienti ma, nel rispetto della tradizione capitolina, il rigoroso uso di tenere fettine di vitello.

Per preparare i saltimbocca, vi suggeriamo la ricetta del Gambero Rosso:

Ingredienti:

12 scaloppine di vitello ricavate dalla noce del peso complessivo di circa 400 g; 
100 g di prosciutto dolce; 
1/2 bicchiere di vino bianco secco; 
1 cucchiaio d'olio extravergine d'oliva; 
1 noce di burro; 
Abbondante salvia fresca a foglie grandi; 
Poca farina; 
Sale e pepe

Preparazione

Per questa preparazione, le scaloppine dovranno essere molto piccole e sottili, più o meno delle dimensioni di un palmo. Ripulitele da nervetti e pellicine, battetele con il batticarne inumidito e allineatele sul tavolo.
Insaporitele con pepe e poco sale (il prosciutto è già salato) e mettete una foglia di salvia (lavata e asciugata) al centro di ogni fettina. Coprite con mezza fettina di prosciutto (non scartate la parte grassa!) e tenete uniti i tre strati con uno stuzzicadenti infilzato come se fosse uno spillo nella stoffa.

Infarinate molto leggermente i saltimbocca soltanto nella parte inferiore, quindi scaldate olio e burro in una padella ampia, fate soffriggere brevemente qualche foglia di salvia e accomodatevi i saltimbocca, vicini ma senza accavallarli.

Cuoceteli per due o tre minuti a fuoco vivace solo dalla parte infarinata, senza girarli (con il calore forte il prosciutto si indurisce e perde il profumo) e, quando avranno preso colore, bagnateli con il vino.
Non appena il vino è sfumato, i saltimbocca sono pronti: accomodateli sul piatto da portata scaldato e, se necessario, staccate dalla padella il fondo di cottura con qualche cucchiaio di acqua calda.

Nappate i saltimbocca con la salsetta che si sarà formata e serviteli caldissimi. Accompagnateli con un purè di patate o con fagiolini al burro. 

 

Photo credits: Gambero Rosso Official Website

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Saltimbocca alla romana ph. Gambero Rosso
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